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12 maggio 2009 2 12 /05 /maggio /2009 12:06
Questa è la VERA storia della nostra Italietta, in questi ultimi
anni....
Un' Italietta retrograda, clanistica-familistica (come i paesi nord-
africani), integralista, immobile..

La vera storia delle indagini di Luigi De Magistris

A partire dal 2004 la Calabria appare ripetutamente al centro di
inchieste che incrociano criminalità organizzata e politica, corruzione
e aggressivi comitati d'affari bipartisan. Il culmine delle polemiche
arriva nell'autunno del 2007, quando la procura della Repubblica di
Catanzaro iscrive nel registro degli indagati prima il presidente del
Consiglio Romano Prodi, poi il ministro della Giustizia Clemente
Mastella. Seguono polemiche, ispezioni ministeriali, duri scontri,
finché l'indagine viene strappata al pm che la conduce, Luigi De
Magistris.
Poseidone, il dio del mare (sporco)
Giovane magistrato napoletano in servizio alla procura di Catanzaro,
De Magistris aveva iniziato nell'estate 2004 una lunga indagine
destinata a diventare clamorosa. Di turno estivo in procura, gli erano
arrivati sulla scrivania alcuni esposti e alcune proteste di turisti
che si lamentavano dei mari calabresi. Nella regione si sono spesi in
dieci anni oltre 800 milioni di euro per i depuratori, e addirittura
dal 1997 c'è un commissario straordinario per l'emergenza ambientale.
Eppure le acque continuano a essere sporche e pericolose per la salute
di chi si tuffa dalle coste calabresi, tanto che il presidente della
Regione, Agazio Loiero, ha dovuto perfino scusarsi pubblicamente con i
turisti, peraltro diminuiti non poco negli ultimi anni.
All'inizio del 2005 anche la Corte dei conti, sezione di Catanzaro,
evidenzia irregolarità nella gestione dei fondi impiegati per i
depuratori. Appalti allegri, lavori mai finiti, collaudi mai fatti. De
Magistris avvia la sua inchiesta, che viene chiamata Poseidone, come il
dio greco dei mari. Quello che scopre è un sistema complesso in cui la
politica si fa impresa per gestire i soldi pubblici stanziati
dall'Unione europea o erogati dalla Regione e dallo Stato.

Gli investigatori mettono sotto osservazione una grossa impresa del
nord cara a Pino Galati, Udc, in quel momento sottosegretario alle
Attività produttive nel governo Berlusconi: la Pianimpianti di Milano
che, assieme ad altri colossi del riciclaggio rifiuti, ha vinto un
appalto da 220 milioni di euro. Il vicepresidente è l'ex parlamentare
parmigiano Franco Bonferroni, un ex sottosegretario democristiano amico
di Pier Ferdinando Casini e di Romano Prodi, che nel 1993 vide la sua
carriera politica stroncata da una brutta storia di tangenti. A
quell'epoca lui e l'attuale segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa,
ammisero, nell'ambito della stessa inchiesta, di aver incassato
mazzette, ma dopo una condanna in primo grado, riuscirono a uscire
puliti dal processo grazie a un cavillo procedurale.
Bonferroni, il cui nome figurava in un elenco di massoni agli atti
della commissione P2 (ma lui ha sempre smentito l'affiliazione), nella
Pianimpianti è comunque solo il numero due. Numero uno è invece un
giovane di Lamezia Terme, Roberto Mercuri, che parla spesso con Galati
al telefono. Mercuri è al centro di una rete di relazioni di cui fanno
parte anche l'ex magistrato Giuseppe Chiaravalloti, di Forza Italia,
fino all'aprile 2005 presidente della Regione Calabria, e Annunziato
Scordo, commercialista di Chiaravalloti e marito di Giovanna Raffaelli,
la potente segretaria di Chiaravalloti. In competizione con questo
gruppo politico-imprenditoriale vicino a Forza Italia e all'Udc opera,
secondo De Magistris, una seconda cordata, targata An, di cui fa parte
Giovambattista Papello, già consigliere d'amministrazione dell'Anas e
già responsabile unico per l'emergenza ambientale in Calabria, uomo
molto vicino a Maurizio Gasparri e a Ugo Martinat, fino al
2006 viceministro del governo Berlusconi.
Davanti a De Magistris un testimone, titolare di un'impresa
specializzata nella costruzione di depuratori, accusa:
Non mi hanno mai invitato alle gare e ho lavorato solo in subappalto
perché sono fuori dal giro. Tutto ruota intorno ai rapporti tra
imprenditori e politici. Quando si trattava di effettuare i conti con
le società che mi affidavano i lavori mi facevano capire che avevano
delle "altre spese" ammontanti a circa il 4 per cento.
"Altre spese": ovvero presunte tangenti che secondo il testimone
erano destinate agli uomini di partito che sponsorizzano le varie
aziende. Antonio Naso, un altro imprenditore escluso dalla torta
calabrese, parla di un sistema che prevedeva mazzette oscillanti tra il
3 e il 7 per cento, mascherate con fatture inesistenti, in parte
destinate alle segreterie nazionali dei partiti. Naso dice:
Le cordate sono due: quella facente capo all'allora ministro Gasparri
di An, che aveva come referente Papello, e quella che aveva come
riferimento Fabio Schettini (già responsabile dei club di Forza Italia
a Roma, nda ), legato all'allora ministro Frattini di Forza Italia. Mio
cugino ha lavorato nel cosentino per un capannone della società di
Schettini e Papello e mi ha riferito che non volevano pagarlo
promettendogli in cambio commesse nel settore delle acque.
Lunedì 16 maggio 2005, De Magistris fa perquisire dai carabinieri
case e uffici di una dozzina di personaggi eccellenti, tra cui l'ex
presidente Chiaravalloti, l'ex assessore regionale all'Ambiente Antonio
Basile e l'ex direttore generale all'Ambiente, prefetto Giuseppe
Mazzitello. Per le perquisizioni, il magistrato aspetta che sia passato
il periodo elettorale, per non rischiare di condizionarne l'esito: le
elezioni regionali si sono tenute in aprile, con la vittoria del
centrosinistra guidato da Agazio Loiero, che prende il posto di
Chiaravalloti alla guida della Regione. Le perquisizioni, però, non
portano alla scoperta di nuovi elementi utili alle indagini. Gli
investigatori cominciano così a pensare che gli indagati siano stati
informati da una "talpa".
Solo uno dei perquisiti è colto davvero di sorpresa: Giovanbattista
Papello che in quel momento è in viaggio negli Stati Uniti. Nella sua
sua abitazione romana i carabinieri scoprono oggetti di valore, i
documenti di trasporto di una partita di diamanti e libretti d'assegni
di molti conti italiani ed esteri, uno dei quali intestato al partito
Alleanza nazionale; poi un grembiulino massonico e un biglietto da
visita (con numeri di telefono riservati aggiunti a mano) del generale
della Guardia di finanza Walter Cretella Lombardo, comandante del
Secondo reparto, ossia il servizio segreto interno delle Fiamme gialle;
infine alcuni dossier, con trascrizioni intercettazioni telefoniche
(illegali o inventate?) di conversazioni avvenute nel novembre 2004 tra
il presidente dell'Anas Vincenzo Pozzi e il segretario dei Ds Piero
Fassino.
Il giorno dopo la perquisizione, martedì 17 maggio 2005, a Milano un
uomo si presenta nella sede di via Verdi della Banca popolare di
Brescia. Chiede di accedere a una cassetta di sicurezza. La svuota.
Stranamente, quella mattina la telecamera della banca non funziona. Ma
le indagini appureranno che quell'uomo è Cesare Mercuri, fratello
dell'amministratore delegato della Pianimpianti. Viene fermato la sera
stessa alla frontiera, mentre, in treno, sta tentando di raggiungere il
Lussemburgo. I militari della Guardia di Finanza di Domodossola trovano
nel suo borsone, sotto camicie e magliette, una montagna di biglietti
da 500 euro, per un totale di 3 milioni e 354 mila euro. Sono i soldi
che erano stati depositati il 6 maggio nella cassetta di sicurezza
della banca di via Verdi da Roberto Mercuri ed erano poi stati
prelevati quel 17 maggio dal fratello Cesare.
A questo punto si aprono due gialli. Il primo: come mai le
perquisizioni ordinate da De Magistris nei confronti del gruppo che
faceva riferimento ad An sono state inutili (con l'eccezione di
Papello)? C'è davvero una "talpa" e, se c'è, chi è? Il secondo: come
mai la Guardia di finanza, in un controllo presentato come casuale, è
andata a colpo sicuro a sequestrare i soldi di Mercuri, del gruppo che
faceva riferimento a Udc-Forza Italia?
Intanto De Magistris batte la pista dei soldi. E quando trova traccia
di un versamento di 100 mila euro arrivato sui conti di Fabio
Schettini, in quel momento segretario del commissario europeo Franco
Frattini (Forza Italia), va a controllare chi lo ha effettuato. Con
sorpresa scopre che a disporre il bonifico è stato Gianfranco Pittelli,
un avvocato e senatore di Forza Italia, in passato vicino alla
massoneria, che assiste quasi tutti gli indagati. Anche per Pittelli
scatta l'avviso di garanzia, ma a quel punto interviene il procuratore
della Repubblica di Catanzaro Mariano Lombardi, che accusa De Magistris
di gravi violazioni procedurali e il 29 marzo 2007 gli sottrae
l'indagine Poseidone.
Il procuratore, mentre annuncia di aver tolto l'inchiesta a De
Magistris, è però costretto a dichiarare che se ne spoglia egli stesso
per i suoi rapporti con Pittelli. Lombardi infatti non è solo amico
dell'avvocato-senatore, ma il suo figliastro è addirittura socio di
Pittelli in un'immobiliare, la Roma 9 srl.
Una talpa in procura?
La situazione è esplosiva. Da una parte c'è De Magistris. Dall'altra
ci sono tutti gli altri: gli imprenditori indagati, i politici, gli
avvocati che, forti di una serie di sentenze del Tribunale del riesame
di Catanzaro a loro favorevoli, lo accusano di stare sollevando un
enorme e inutile polverone. Secondo loro se i giudici del Riesame tante
volte hanno cassato il suo lavoro, annullando i decreti di
perquisizione, vuol dire che De Magistris si sta muovendo al di fuori
della legge. In realtà le cose non sono così semplici. Anche perché la
Cassazione ha a sua volta bocciato un paio di volte i provvedimenti del
Riesame, con parole durissime: «Il giudice del Riesame ha violato la
legge processuale» e ha fatto addirittura da «ostacolo all'acquisizione
di atti, documenti o altri elementi di prova». Lo spiega a Carlo
Vulpio, sul Correre della Sera , Piercamillo Davigo, l'ex dottor
sottile del pool milanese di Mani Pulite, nel frattempo diventato
giudice della Corte di Cassazione, dove si è occupato della
perquisizione contro l'ex presidente della Regione, Chiaravalloti:
Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e oggi giudice della
Suprema Corte, è stato relatore in Cassazione proprio su questo
provvedimento, bocciato per due volte dal Tribunale del riesame di
Catanzaro e per due volte accolto dalla Cassazione, con una sentenza
molto dura nei confronti dello stesso Riesame.
«Non conosco il secondo provvedimento della Cassazione -- dice Davigo
--, ma ricordo bene il primo. E francamente mi sorprende che la
questione sia tornata in Cassazione per la seconda volta dopo un
annullamento piuttosto netto della decisione del Riesame da parte della
Suprema corte».
Perché la sorprende?
«Beh, due bocciature del Riesame sono due bocciature. Accade
raramente. Soprattutto se, com'è successo in quel caso, con il primo
annullamento gli atti sono stati rinviati al Riesame. Il giudice del
rinvio non deve fare gli stessi errori che hanno portato al primo
annullamento».
Cosa diceva il Riesame di Catanzaro sul provvedimento del pm de
Magistris?
«Lo tacciava di genericità. Io invece ricordo che quel provvedimento
non era per nulla generico. Anzi, poneva due questioni molto
interessanti. La prima, sui limiti della specificità delle cose
sequestrate. La seconda, sul sequestro d'iniziativa della polizia
giudiziaria».
Diciamolo con un esempio.
«Se con la perquisizione si cercano armi e invece si trova droga, non
si può ricorrere al Riesame perché, appunto, si è trovata la droga e
non le armi. Non solo. Se la "polvere" rinvenuta non è droga, il
Riesame non può nemmeno spingersi a fare l'analisi chimica per
stabilire se è droga o no».
Insomma, il Riesame non può entrare nel merito, com'è accaduto per
quel provvedimento del pm di Catanzaro?
«Certo che no. Il Riesame non può fare il processo al processo. È
giurisprudenza costante della Cassazione».
L'impressione è che contro De Magistris si sia compattato un fronte
politico-giudiziario vastissimo. Il pm è andato infatti a toccare
interessi consistenti, spesso sfiorando anche importanti magistrati
calabresi o i loro famigliari. Un troncone dell'indagine, come vedremo,
riguarda per esempio una serie di assunzioni su raccomandazione da
parte di imprenditori che, secondo l'accusa, ricevono fondi pubblici
grazie ai loro agganci politici. Uno di questi è Antonio Saladino, un
ex veterinario legato alla Compagnia delle Opere, diventato con gli
anni ricchissimo. Una delle sue società di lavoro interinale riceve
commesse milionarie dalla Regione, occupa 500 persone e ne distacca ben
146 nelle segreterie di partito e negli assessorati. Secondo un
testimone, però, tra chi ha segnalato a Saladino le persone da assumere
non ci sarebbero solo politici di tutti gli schieramenti, ma anche
anche il procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone, mentre il
presidente del Tribunale del riesame, Adalgisa Rinaldo, avrebbe un
figlio e una nuora che hanno lavorato in società riconducibili all'ex
veterinario.
Da questo punto di vista De Magistris appare dunque accerchiato. E la
sensazione è avvalorata anche dal contenuto delle intercettazioni di
Chiaravalloti, diventato nel frattempo vicepresidente dell'Ufficio del
Garante per la privacy. Chiaravalloti al telefono non fa mai il nome di
De Magistris. Lo chiama "lui", "il poverino", "il pagliaccio". È sempre
ben informato sulle mosse del magistrato e sulle scadenze giudiziarie:
«Oggi scade per lui il termine per chiedere la proroga...». A volte si
lascia andare: «Questa gliela facciamo pagare». Oppure: «Lo dobbiamo
ammazzare. No, gli facciamo cause civili per risarcimento danni e ne
affidiamo la gestione alla camorra napoletana... Quello che voglio non
sono i soldi!». La segretaria, temendo di essere intercettata, cerca di
frenare l'ex presidente: «Ma non dirlo neanche per scherzo, per carità
di Dio! Mettiti nei panni di chi è costretto ad ascoltarci...». E
Chiaravalloti: «Poverino, è bene che
sappia queste cose, la cosa bella è che abbiamo detto tutto alla
luce del sole... Saprà con chi ha a che fare, mi auguro che qualcuno
ascolti e glielo vada a riferire... C'è quel principio, quella sorta di
principio di Archimede: ad ogni azione corrisponde una reazione...
Siamo così tanti ad avere subito l'azione che, quando esploderà la
reazione, sarà adeguata!».
«Questa gliela facciamo pagare: vedrai, passerà gli anni suoi a
difendersi». Questa promessa è fatta da Chiaravalloti nel novembre
2005. Sarà mantenuta: il giovane magistrato finisce duramente attaccato
sia dalla magistratura sia dalla politica. Si moltiplicano le
interpellanze parlamentari contro di lui, cominciano le ispezioni
ministeriali. Le interpellanze sono 17 in 23 mesi. Diventeranno un
centinaio in un paio d'anni. La prima, nel luglio 2005 (due mesi dopo
le perquisizioni eccellenti ordinate da De Magistris), è del senatore
Ettore Bucciero (An), che con un testo inusuale per la sua lunghezza
chiede conto dell'intera carriera del pm. Bucciero insiste con altre
interrogazioni a settembre e poi a ottobre. In seguito arriva
un'interrogazione firmata da ben 39 senatori (di Forza Italia, An, Udc,
Lega). Poi tre senatori di An spulciano la vita privata del magistrato
e chiedono conto dei rapporti di lavoro della famiglia De Magistris. A
marzo 2006
il deputato Basilio Germanà (Forza Italia) chiede che al pm sia
tolta l'inchiesta Poseidone. Infine un'ennesima interrogazione viene
firmata da ben 48 parlamentari.  
Intanto, spinte dalla pressione della politica, erano partite le
ispezioni. La prima, nel 2005, è disposta dal ministro Roberto Castelli
durante il governo Berlusconi. L'ultima, nel 2007, da Mastella sotto il
governo Prodi. De Magistris praticamente lavora per tre anni con gli
ispettori ministeriali accanto. Nell'ottobre 2007, chiamato davanti al
Csm a difendersi dall'accusa di aver compiuto scorrettezze procedurali,
giustifica i suoi comportamenti. Sostiene di aver sempre informato dei
suoi atti il procuratore capo. Ma spiega anche di aver raccolto
elementi secondo cui le "talpe" che danneggiavano le sue inchieste
erano proprio dentro il palazzo di giustizia. E sulla base delle
intercettazioni telefoniche e dell'esame dei tabulati del cellulare di
Pittelli afferma che uno degli autori delle soffiate potrebbe essere
proprio il procuratore Mariano Lombardi.

Per questo De Magistris ha inviato una serie di atti, tra cui un
voluminoso rapporto del suo consulente Gioacchino Genchi, alla procura
di Salerno, competente sui magistrati di Catanzaro, e davanti a loro ha
ricordato di avere avvertito Lombardi il 10 maggio delle perquisizioni
che intendeva ordinare contro Chiaravalloti & C, spigandogli che
sarebbero scattate il 18. All'ultimo momento però aveva deciso di
anticipare il blitz di due giorni. Ebbene: tra il 10 e il 18 maggio
Lombardi e Pittelli, che sarà nominato difensore da buona parte degli
indagati, hanno molte conversazioni telefoniche. Nessuno ne conosce il
contenuto, visto che non sono state intercettate. Il 17 maggio è stata
però registrata una chiacchierata tra Pittelli e suo cugino, Benedetto
Arcuri, nella quale si parla dell'indagine. Pittelli dice: «O hanno
tanto materiale da fare spavento, tipo intercettazioni o [...] danaro,
oppure fanno una figura allucinante». Arcuri replica: «Il
capo di tutti lo prevedeva che poteva esserci questo». «Chi?». «Il
capo», continua Arcuri, «quello che ha parlato con te, che era venuto
da te, il capo!». Parlano forse del capo della procura, Mariano
Lombardi? Alla luce del contenuto di altre intercettazioni, De
Magistris si è convinto che è così.
Amaro lucano
De Magistris, privato dell'indagine Poseidone, prosegue le altre
inchieste che ha avviato, sulla sanità calabrese,
sull'informatizzazione, sullo sperpero dei finanziamenti dell'Unione
europea, oltre che su alcune cosche mafiose locali. Indaga anche fuori
dai confini della regione sui comportamenti di alcuni magistrati di
Potenza (per cui è competente proprio Catanzaro). È l'indagine chiamata
"Toghe lucane": sulle attività, secondo l'ipotesi d'accusa, di un altro
comitato d'affari, che opererebbe questa volta nella defilata
Basilicata. Con la copertura, secondo l'ipotesi d'accusa, dei
magistrati locali: a Potenza, il procuratore generale Vincenzo Tufano,
il procuratore della Repubblica Giuseppe Galante e il pubblico
ministero Felicia Genovese; a Matera, il procuratore della Repubblica
Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale, Iside Granese, e il
giudice Rosa Bia. Tutti indagati da De Magistris insieme a quello che
ritiene essere il gruppo - anche
questo bipartisan - che decide la sanità e gli affari in Basilicata
e che va da Emilio Buccico, senatore di An e sindaco di Matera, a
Filippo Bubbico, leader dei Ds lucani e sottosegretario allo Sviluppo
economico del governo Prodi. Mentre si scontra con i suoi superiori di
Catanzaro, De Magistris si trova così impegnato su un secondo fronte,
assai simile a quello calabrese. E presto ha modo di accorgersi che i
due fronti sono in qualche modo legati tra loro.
Figura centrale dell'indagine "Toghe lucane" è Felicia Genovese, un
magistrato sposato a Michele Cannizzaro, medico massone iscritto alla
Margherita. Il procuratore generale di Potenza è sempre stato molto
rigoroso con il pm Henry John Woodcock, a cui ha chiesto spiegazioni a
raffica sulle inchieste da lui avviate. Felicia Genovese ha avuto vita
più facile, malgrado le stranezze che potrebbero essere riscontrate
nelle sue indagini. Il marito, per esempio, è stato nominato direttore
generale del più importante ospedale locale da un gruppo di politici
che la pm aveva sotto inchiesta, e la sua nomina è avvenuta proprio
dopo che Genovese aveva chiesto l'archiviazione (poi respinta dal
gip???) delle loro posizioni. Cannizzaro riceve (per motivi
professionali) uomini della 'ndragheta nella casa dove abita con la
moglie pm. E viene poi accusato (senza fondamento, si appurerà) del
duplice omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero, caso seguito dalla
moglie, che si guarda bene dall'astenersi dalle indagini.  
Con l'indagine "Toghe lucane", De Magistris finisce ancora una volta
per pestare i piedi non solo ai politici, ma anche a magistrati. E
anche qui la reazione non si fa attendere. Mentre cerca di far luce sul
presunto comitato d'affari lucano, la procura di Matera intercetta le
sue telefonate con Pasquale Zacheo, il capitano dei carabinieri che
conduce le indagini a Potenza per conto di De Magistris. Il motivo
dell'ascolto: una serie di querele per diffamazione intentate dal
senatore Buccico (indagato da De Magistris) contro alcuni giornalisti
di testate locali e nazionali. Per questo reato il codice non consente
le intercettazioni, ma la procura di Matera contesta ai cronisti
un'inedita associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione.
Così, utilizzando il grimaldello del reato associativo, mette sotto
controllo i loro telefoni e poi fa lo stesso con il capitano Zacheo,
considerato una delle loro tante fonti.
Nessuno prima d'ora aveva mai contestato un reato del genere, anche
perché è difficile ipotizzare che cinque giornalisti (tra cui un
inviato del Corriere della Sera e uno di Chi l'ha visto? ) complottino
assieme a un ufficiale dei carabinieri per diffamare qualcuno.
L'attività dei giornalisti, più che associazione a delinquere, si
chiama diritto di cronaca. Ma tant'è. Buccico, del resto, è un uomo
potente. È un avvocato di grido, è stato membro laico del Csm in quota
Alleanza Nazionale e nella sua carriera ha stretto rapporti con decine
di magistrati.
Non per niente, in suo rapporto, proprio il capitano Zacheo scrive:
«Alcuni esponenti politici si stanno positivamente adoperando affinché
le indagini siano assegnate al procuratore aggiunto di Catanzaro, il
dottor Salvatore Murone». Poi aggiunge: «La pm Felicia Genovese,
durante un colloquio nel suo ufficio, mi riferì di aver conosciuto
Murone, in quanto presentatole da Buccico». Murone, quindi,
conoscerebbe bene il senatore indagato. Ma c'è di più. Il «senatore
Buccico, alludendo alla sua attività, quale membro laico del Csm,
avrebbe confidato alla Genovese che il giudice Murone sarebbe una sua
creatura».
Zacheo però non avrà il tempo di concludere la sua indagine sulle
"Toghe lucane". La procura di Matera, dove Buccico è diventato sindaco,
lo perquisisce insieme ai giornalisti che seguivano l'inchiesta e a
fine ottobre 2007 il comando generale dell'Arma dei Carabineri ordina
il suo trasferimento. De Magistris viene lasciato solo, nell'unica
indagine che, come vedremo, non gli verrà sfilata.
Cesa, io c'entro
Mettendo insieme i pezzi del puzzle delle indagini di De Magistris,
appare dunque chiara la trama di comitati d'affari in cui la destra
spesso si mescola con la sinistra. Quello dei depuratori delle acque è
solo uno dei business analizzati dal magistrato, un business che ha già
bruciato oltre 800 milioni di euro. Poi ci sono gli altri sperperi. Le
altre truffe. Una di queste, secondo De Magistris, riguarda Lorenzo
Cesa, dal 2006 segretario dell'Udc, che risulta in affari con Schettini
e Papello. Nel marzo 2006 De Magistris iscrive Cesa sul registro degli
indagati, in compagnia di un folto gruppo di militari, industriali e
parlamentari, tra cui il potente generale Cretella Lombardo.
Cinquantacinque anni, originario di Arcinazzo Romano, Cesa aveva
mosso i primi passi nei movimenti giovanili della Democrazia cristiana
dove si era legato a Pierferdinando Casini. Nel 1993, quando era ancora
un semplice consigliere comunale a Roma, era stato arrestato dopo un
paio di giorni di latitanza perché accusato di essere uno dei cassieri
del ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini. In carcere aveva
confessato: davvero molti imprenditori impegnati nei lavori pubblici
dell'Anas gli avevano consegnato mazzette poi girate al ministro. Per
questo, nel 2001, Cesa era stato condannato in primo grado a 3 anni e 3
mesi di reclusione per corruzione aggravata. L'anno seguente però la
Corte d'Appello aveva annullato la sentenza per una questione
procedurale (il pm del processo aveva svolto anche le funzione di gup)
e il gip, dopo aver dichiarato gli atti "inutilizzabili", aveva
stabilito il non luogo a procedere. In tutto questo periodo Cesa non
era
però rimasto con le mani in mano. Già nel 1994 aveva aderito al Ccd
di Casini e Mastella e poi all'Udc e si era dato da fare anche in
consistenti attività imprenditoriali, a Roma e in Calabria.
In Calabria, secondo le indagini di De Magistris, Cesa ha succhiato
consistenti finanziamenti europei, con il sistema del sostegno pubblico
alle imprese. Diventa socio di una azienda, la Digitaleco Optical disk,
che avrebbe dovuto produrre dvd e che ha incassato dall'Europa almeno 5
miliardi di lire senza però produrre neppure un bottone. La società era
gestita da Giovanbattista Papello (An) e Fabio Schettini (Forza
Italia), mentre Cesa aveva una piccola partecipazione. Quando i tre la
vendono, l'imprenditore che la rileva resta di stucco: la fabbrica era
ancora in fase di costruzione, non aveva neppure il tetto, eppure aveva
già superato il collaudo. Quanto ai macchinari, pagati con i soldi
dell'Unione europea, erano ancora imballati, in un angolo. Per questo
il segretario dell'Udc finirà indagato anche dall'Olaf, l'Ufficio
antifrode europeo che si occuperà di lui anche in qualità di ex
europarlamentare e membro della commissione di controllo sul
Bilancio, proprio quella che aveva competenza sulle truffe alla
Ue.
Ma Cesa è una vera e propria macchina da soldi. De Magistris se ne
rende conto quando s'imbatte in una sua società di Roma, la Global
Media, che fattura quasi 7 milioni di euro l'anno organizzando eventi
per società pubbliche molto disponibili come Anas, Enel, Finmeccanica,
Lottomatica, Alitalia. Nelle casse della Global Media entrano, dal
gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, ben 30 milioni e mezzo di euro. A
sorpresa, il primo cliente, quello che ha pagato di più, è proprio il
partito: l'Udc e il suo "progenitore", il Ccd, sborsano
complessivamente 3 milioni e 200 mila. Segue l'Enel con 3 milioni e 160
mila euro; Lottomatica con 3 milioni e 100 mila euro. Poi c'è il gruppo
Finmeccanica che ha versato 2 milioni e 700 mila euro. In quinta
posizione arriva finalmente una società privata: Grey Worldwide con due
milioni di euro. Poi la Sogei, la società informatica del ministero
delle Finanze, con 1 milione e 900 mila euro. E poi ancora: la società
calabrese Intersiel con 1 milione e 600mila euro, Wind con 1 milione
e 180 mila euro, Fincantieri con 700 mila euro. Anche la Pianimpianti
degli amici Mercuri e Bonferroni versa alla società di Cesa 360 mila
euro.
Non sfuggono alcune considerazioni sulla natura dei clienti: l'Enel è
presieduta da Piero Gnudi, vicino all'Udc. Nel consiglio Finmeccanica
siede Franco Bonferroni, il vecchio democristiano, già coimputato di
Cesa nel processo per le mazzette Anas. Il presidente di Lottomatica
era Marco Staderini, uomo dell'Udc, mentre responsabile delle relazioni
esterne era la ex moglie di Pierferdinando Casini, Roberta Lubich.
Anche Sogei, Fincantieri e Wind sono società pubbliche o sottoposte
all'influenza della politica e c'è da chiedersi che fine farebbe Global
Media senza questi grandi clienti.
La procura di Catanzaro esamina con attenzione anche l'elenco dei
fornitori. A partire dalla Fidanzia Sistemi, una società pugliese che
ha incassato 1 milione e 350 mila euro da Global Media e poi ha
finanziato (per un importo inferiore) la campagna elettorale di del
futuro segretario dell'Udc. C'è anche una società straniera alla quale
sono andati 250 mila euro, con sede a Madeira. Per questo i periti
incaricati di esaminare i bilanci della Global Media sospettano che la
società sia il «polmone finaziario dell'Udc». Certo è che, visto il
tipo di prestazioni fornite, per lo più servizi difficilmente
quantificabili, è quasi impossibile stabilire se le prestazioni siano
congrue rispetto a quanto incassato per ogni singolo contratto.
E non è tutto. Perché la Global Media ha ricevuto pure finanziamenti
europei (s'ipotizza una cifra attorno ai 300 mila euro) per organizzare
convegni e iniziative per gli italiani all'estero. I fondi, stando agli
investigatori, passavano attraverso un'agenzia Onu (la Cif Oil), erano
giustificati con fatture gonfiate e la differenza tra quanto ricevuto e
quanto effettivamente speso veniva poi incamerata da Cesa, che la usava
per sostenere il partito. A spiegare questo meccanismo ai magistrati è
nientemeno che Francesco Campanella, il giovane massone siciliano
dirigente dell'Udc (e poi segretario nazionale dei giovani dell'Udeur
di Mastella) che ha fornito a Bernardo Provenzano il documento
d'identità che ha permesso al boss di andare a operarsi in Francia.
Campanella, nel 2003, reincontra a Roma un vecchio amico, un altro
massone: Giovanni Randazzo, il mandatario elettorale (in pratica il
tesoriere) di Cesa nella campagna elettorale per le europee del
2004. Rispetto all'ultima volta in cui si sono visti, Randazzo è
un'altra persona: Mercedes, begli abiti, casa e ufficio a Largo Chigi,
vacanze a Vulcano e gommone da 20 metri. «Giovanni che hai fatto?»,
chiede Campanella. Il vecchio amico gli risponde, svelando il nome del
suo re Mida: «Lorenzo Cesa mi ha inserito in un sacco di affari. Vuoi
diventare il mio uomo in Sicilia?». Campanella accetta: «Randazzo mi
disse che Cesa era la mente finanziaria dell'Udc, il factotum, colui
che riempiva le casse attraverso questo sistema, che è il sistema di
finanziamento dell'Udc».
Anche Campanella entra così nel "sistema". Si occupa del Pptie, cioè
Programma di partnerariato territoriale per gli italiani all'estero. Il
Fondo sociale europeo aveva stanziato 8 milioni di euro destinati al
ministero degli Esteri per agevolare i rapporti con gli emigrati di
successo. Per evitare le gare, racconta Campanella, Cesa e i suoi amici
riescono a far assegnare il programma all'agenzia dell'Onu, Cif-Oil di
Torino, per poi sovrafatturare il costo dei convegni e restituire una
quota alla struttura politica di Cesa. Tutto infatti, spiega Campanella
ai pm, ruota attorno a una serie di società che prendono appalti nel
settore del marketing al fine di generare il nero da girare a Cesa e al
suo partito. Il perno del meccanismo, secondo Campanella, sarebbe
un'agenzia che organizza il business: alberghi, hostess, viaggi,
biglietti. Il pentito non ne ricorda il nome. Una sola cosa è certa: il
convegno finale del Pptie al Grand Hotel di Roma è stato
organizzato da Global Media.
Il caso Pacenza
Quella dei fondi pubblici, del resto, è una torta invitante sulla
quale, specie in Calabria, si buttano in tanti. Per questo le indagini
delle procure della regione si moltiplicano. E per questo, il 17 luglio
del 2006, il pm di Cosenza, Giuseppe Cozzolino, chiede e ottiene
l'arresto di Franco Pacenza, il capogruppo dei Ds in Regione. È
l'epilogo (provvisorio) di una vicenda iniziata nel 1998, quando
l'imprenditore Franco Alfonso Rizzo, nato in Germania da famiglia di
Corigliano (Cosenza), presenta una richiesta di contributi alla
Sviluppo Italia Calabria. Vengono così finanziate due aziende, la
Printec international srl e la Sensitec srl, create per la produzione
di sensori per stampanti, cartucce e altro. In tutto Rizzo e i suoi
soci incassano circa 6 milioni e mezzo di euro e in cambio s'impegano a
garantire investimenti, produttività e occupazione.

Dopo un po' i dipendenti di Rizzo presentano però una denucia
sostenendo che in realtà le aziende non producono nulla. Rizzo finisce
in manette e interrogato tira in ballo il diessino Pacenza, ex
responsabile locale della Cgil. Proprio lui, racconta Rizzo, gli
avrebbe assicurato nel 2000 un appoggio per le pratiche di
finanziamento, in cambio dell'assunzione di "suoi" lavoratori. Non a
caso, scoprono gli investigatori, nella sede dei Ds di Corigliano si
svolge una strana selezione di personale, dove i soci di Printec e
Sensitec accolgono i candidati con la frase «Devi ringraziare Franco
Pacenza per questa occasione di lavoro...».
Rizzo sostiene che il politico calabrese gli avrebbe imposto 13 delle
29 assunzioni previste. E racconta di aver dovuto, per esempio, dare un
lavoro a Maurizio De Simone, che non ne aveva alcun requisito, ma che
aveva promesso di passare da An, di cui era stato candidato, ai Ds, a
cui aveva portato il suo pacchetto di voti. Ma gli investigatori
scoprono anche dell'altro: sempre a Corigliano, nel 2002, la Eurocal
Form srl organizza con soldi pubblici corsi di formazione ai quali
partecipano persone indicate da Pacenza. Gente che, a volte, si
presenta senza nemmeno i requisiti previsti dal bando. Diversi
dipendenti, inoltre, confermano di essere stati assunti grazie alla
segnalazione del capogruppo diessino. E nei sequestri ordinati dalla
magistratura, spuntano anche curricula con la scritta «Franco P.».
Per Pacenza scattano le manette per concussione. Ma il suo arresto
suscita un putiferio. Il vicepresidente diessino della giunta
regionale, Nicola Adamo, dichiara: «È una beffa: la Cgil, io e Pacenza
siamo quelli che hanno fatto emergere il sistema truffaldino delle
aziende coinvolte nell'inchiesta». Interviene anche un esponente
nazionale dei Ds, il calabrese Marco Minniti, viceministro
dell'Interno: «È un errore giudiziario». I parlamentari del
centrosinistra calabrese giurano sull'onestà di Pacenza e organizzano
perfino un sit-in in suo sostegno davanti al carcere di Cosenza. Poi
vanno a trovarlo in cella: sono i senatori Franco Bruno, Pietro Fuda,
Nuccio Iovene e i deputati Franco Amendola, Marilina Intrieri, Maria
Grazia Laganà, Franco Laratta, Ennio Morrone e Nicodemo Oliverio.
Reagisce Antonio Di Pietro: «Stupisce che ci sia stata la visita
nonostante il divieto di colloqui imposto dal magistrato. Lo stesso
comportamento di sfida alla
giustizia ebbe, nel 1985, Bettino Craxi quando i magistrati
arrestarono il primo politico di Tangentopoli, Antonio Natali».
L'indagine si conclude positivamente per Pacenza, che viene
scarcerato dal Tribunale della libertà «per mancanza di gravi indizi»,
e poi completamente prosciolto. Resta aperto invece il giallo dei soldi
spariti: i 6 milioni intascati da Rizzo e dai suoi amici in questa
storia, ma anche, più in generale, i tanti miliardi erogati negli
ultimi anni dall'Unione europea per la Calabria, senza che si sia
creata una sola briciola di sviluppo e senza che la politica abbia mai
avuto il coraggio di dire una parola chiara su questo scempio senza
fine.
E i fondi finiscono in un Clic
Non si è ancora sopita l'eco del "caso Pacenza" che, il 5 settembre
2006, arriva un avviso di garanzia allo stesso Nicola Adamo,
vicepresidente della Giunta regionale calabrese, già in prima fila
nella difesa di Pacenza. Reati ipotizzati: associazione per delinquere,
truffa, abuso d'ufficio. L'inchiesta questa volta è condotta a
Catanzaro da De Magistris e riguarda l'informatizzazione, un altro
business utilizzato per succhiare risorse. A giudicare dai robusti
investimenti, la Calabria oggi dovrebbe essere l'area più
informatizzata d'Europa. Invece, scrive De Magistris, il denaro
pubblico è andato ad alimentare
un sistema di collusione criminale con distribuzione di ruoli tra
imprenditori, professionisti e pubblici amministratori il cui fine,
attraverso la costituzione di società o la partecipazione in società
già costituite, era quello di percepire in modo illecito finanziamenti
pubblici (nazionali, europei e regionali) per importi di diversi
milioni di euro.
Anche in questo campo le indagini rilevano sprechi e finanziamenti
«finiti in un Clic», come scrivono i giornali locali. Clic è il nome di
un consorzio di aziende informatiche. Bipartisan: ne fanno parte
imprese della Compagnia delle Opere e un paio di società della famiglia
di Sergio Abramo (il sindaco di Catanzaro poi candidato del
centrodestra alla presidenza della Regione contro Agazio Loiero); ma
presidente è Enza Bruno Bossio, la moglie del leader dei Ds calabresi
Adamo. Anche qui si sospettano tangenti, favori, appalti truccati. Ma
il sistema prevede anche quote e partecipazioni societarie.
Tutto è estremamente trasversale. Nello scandalo compaiono come
sempre uomini di destra e di sinistra. Politici che pubblicamente si
combattono, ma che poi trovano il modo di fare affari insieme. Tra le
scoperte di De Magistris ce n'è una che fotografa la situazione meglio
di mille discorsi: è la Tesi spa, azienda costituita proprio per
informatizzare (con soldi pubblici) la pubblica amministrazione. Tra i
suoi amministratori si trovano nomi ricorrenti: quello di
Giovanbattista Papello, di An, insieme a quello di Fabio Schettini,
intimo dell'ex ministro di Forza Italia Franco Frattini; ma c'è anche
quello di Giulio Grandinetti, segretario particolare Ds Adamo, nonché
commercialista e socio d'affari di sua moglie Enza Bruno Bossio.
Eccolo, il "sistema Calabria". Le larghe intese? Qui sono già cosa
fatta. La Tesi, per far fronte all'emergenza ambientale, «percepisce
dalla Regione, tra il 1998 e il 2004, 8 milioni di euro», scrivono i
carabinieri in
un'informativa. Altri 5 milioni le arrivano per opere di
informatizzazione. Eppure 13 milioni di euro pubblici non bastano a
renderla solida: sfiora il fallimento.
Cacciare il pm, Why not?
L'indagine sui fondi pubblici succhiati dalle società create dagli
uomini di partito viene chiamata da De Magistris Why not, come una
società di lavoro interinale (anch'essa appartenente al consorzio Clic)
che fa capo ad Antonio Saladino, leader calabrese della Compagnia delle
Opere. Non c'è neppure bisogno di tangenti per oliare i rapporti: i
soldi pubblici, secondo De Magistris, vengono distribuiti sotto forma
di consulenze e progetti che devono essere pagati dalle imprese che
vogliono ottenere finanziamenti europei e regionali. Attivissimo, pieno
di buone relazioni a destra e a manca, Saladino è in contatto anche con
il ministro Mastella, a cui raccomanda e fa incontrare il costruttore
romano Valerio Carducci. Ma ha rapporti anche con Prodi e uomini suo
enturage (Sandro Gozi, membro dello staff di Prodi presso l'Unione
europea, e il consulente Piero Scarpellini).
A raccontare il modo in cui opera Saladino, raggiunto da avviso di
garanzia l'8 febbraio 2007, è una sua collaboratrice ai vertici della
società Why not, Caterina Merante, che rompe con lui e collabora con il
pm:
Utilizzando la Compagnia delle Opere, Saladino comincia a divenire
una vera e propria potenza, non solo economica, ma anche politico-
istituzionale. La forza di Saladino è stata quella di creare un
reticolo di società capaci di operare nel mercato e di ottenere varie e
numerose commesse da parte di enti pubblici, in particolare dalla
Regione Calabria. Il suo potere, poi, strategicamente si rafforzava,
notevolmente, attraverso le modalità con cui venivano assunte le
persone: invitava i politici e i rappresentanti delle varie istituzioni
a segnalare persone da assumere, strategia che si è strutturata con le
società di lavoro interinale e poi con la nascita della Piazza del
Lavoro a Lamezia Terme. Nelle assunzioni da lui effettuate hanno sempre
trovato ampio spazio gli appartenenti a vario titolo alle più varie
istituzioni, dalle forze dell'ordine alla magistratura; il tutto in
modo tale da creare una rete di potere e protezione. Il sistema, per
esemplificare, consisteva in questo: venivano progettate possibilità
di commesse e lavori alle società riconducibili a Saladino ed egli
assumeva le persone segnalate dai politici che le facevano ottenere;
inseriva persone indicate da personalità delle istituzioni, anche
nazionali, e otteneva, in tal modo, anche commesse in altre parti
d'Italia; assumeva, poi, persone indicate da appartenenti alle forze
dell'ordine e della magistratura in modo da poter contare sulla loro
protezione in caso di necessità e comunque per costituire un reticolo
di potere, tanto da scandalizzarsi (lo ripeteva spesso durante le
scuole di comunità di Cl) se qualcuno ignorava che il "potere esiste".
(...) Mi vien da pensare che il fondatore di Cl, don Giussani, si sia
rivoltato nella tomba in questi anni se si vede quale centro di affari
e interessi economici è divenuta la Compagnia delle Opere.
Il sistema Saladino è rigorosamente bipartisan:
La capacità "politica" del dottor Saladino è stata sempre quella di
stringere legami trasversali da un punto di vista politico, sempre
nell'ottica di una logica di tipo affaristico, più che imprenditoriale,
nonché consolidare rapporti a livello istituzionale, in modo da
penetrare a ogni livello, qualora ve ne fosse il bisogno.
Infatti l'imprenditore, secondo Merante, da una parte stringe «un
rapporto privilegiato» con il Ds Adamo: tanto che, per esempio, nel
primo contratto tra la Regione Calabria ed Obiettivo Lavoro (180
lavoratori interinali) «la maggioranza delle persone assunte dal
Saladino sono, appunto, da lui segnalate». Dall'altra, è molto vicino
all'allora presidente della Regione Chiaravalloti, di Forza Italia.
Così è pronto a ogni evenienza: perché «il momento storico è
particolare, è opinione diffusa che le prossime elezioni sarebbero
state vinte dal centro-sinistra e in particolare da Adamo». Da queste
larghe intese nasce, nel settembre 2004, il consorzio Clic, che, come
abbiamo visto, vede protagonisti, a sinistra, la moglie di Adamo, Bruno
Bossio, e Pietro Macrì, della Margherita, area prodiana; e a destra
Abramo, l'ex sindaco di Cosenza.
Il consorzio si consolida anche perché Enza Bruno Bossio, Saladino e
Chiaravalloti pensano a un modo per unire la lobby di Catanzaro con la
lobby di Cosenza. Abramo non si convince facilmente ma sa che, presto,
tornerà a contare Adamo, con la vittoria molto probabile alle elezioni
del centro-sinistra.
Così avviene. E gli affari proseguono per tutti. Il consorzio Clic
riesce a ottenere un finanziamento di 3.600.000 euro: stanziati sotto
la presidenza Chiaravalloti, ma pagati dopo la vittoria di Loiero,
quando Adamo diventa assessore al Bilancio e alle Attività produttive.
Infatti
i soldi dati al consorzio Clic finiscono, poi, in Tesi. Le somme sono
divise in due tranches: la prima viene erogata dalla giunta
Chiaravalloti, la seconda dalla giunta Loiero, in particolare da Nicola
Adamo. Posso dire che il consorzio Clic è stato, alla fine dei conti,
inefficace, in quanto nulla è stato realizzato. (...) L'affare doveva
essere questo: si trattava di canalizzare le somme, assai ingenti,
provenienti dall'Unione europea, nel settore dell'informatica. La
società che doveva essere favorita era Tesi, azienda di interesse della
Bruno Bossio e di Adamo (...) da cui dovevano transitare senza gara
tutti i lavori per la Calabria informatica.
Poi le cose si complicano perché cambia la legislazione e perché
«Loiero non consente che Adamo e la Bruna Bossio gestiscano, da soli,
tutto il settore dell'informatica». Ma la pioggia di soldi pubblici
continua. Intanto però si incrinano i rapporti tra Saladino e Meranti,
che gestisce Why not. Secondo la testimone, Saladino vuol fare soldi in
fretta, non gli interessa sviluppare davvero le aziende che vara.
Costringe, per esempio, Merante e altri imprenditori ad acquistare un
software venduto da Macrì a 250 mila euro. «Un software che, in realtà,
non ha mai funzionato» (ma l'azienda produttrice smentisce). Quando Why
not sfugge di mano a Saladino perché Merante non gli obbedisce più,
smette di ottenere commesse pubbliche. Saladino la sostituisce con
un'altra azienda, Persone, «riconducibile al figlio dell'assessore
Mario Pirillo».
I soldi pubblici continuano ad arrivare. Le assunzioni sono sempre
clientelari. La Regione stanzia, per esempio, 6 milioni di euro per il
progetto Ipnosi, che assume 108 persone, «tutte rigorosamente
raccomandate». Queste però, spiega Meranti, «non volevano lavorare per
il privato, ma solamente essere assunti dalla Regione Calabria: tanto
da rifiutare un'assunzione a tempo indeterminato (come potranno
testimoniare anche i sindacati)». Un altro progetto, chiamato Telcal e
gestito da Bruno Bossio, offre 75 contratti di lavoro: anche questi a
persone «tutte raccomandate, in particolare da politici regionali».
Circa 3 milioni di euro vanno invece al progetto Tristeza «che doveva
curare la malattia degli agrumi: il progetto è stato fatto aggiudicare
al Saladino».
Anche la legge regionale del 2002 che stabilizza i servizi svolti in
precedenza dai lavoratori interinali ha Saladino come padre:
Questa legge viene fortemente voluta dal dottor Saladino, il quale,
attraverso le sue amicizie all'interno della giunta regionale, ha
"proposto" una legge che gli consentiva di perseguire il suo obiettivo
economico, che era quello, appunto, di stabilizzare i lavoratori
interinali.
Quelli gestiti da Saladino erano intanto passati da 180 a 490, «tutte
persone raccomandate, che lavoravano presso Obiettivo Lavoro». Anche
l'opposizione offre il suo contributo:
La legge regionale era concordata anche con Nicola Adamo, che
all'epoca era all'opposizione. Nicola Adamo, persona scaltra,
addirittura presentò un'interrogazione regionale facendo apparire che
lui fosse contrario alla legge, ma era solo una finzione, una messa in
scena di apparente opposizione politica, in realtà era d'accordo e vi
era la certezza che la legge sarebbe stata approvata. Del resto, tante
erano le persone segnalate dallo stesso Adamo e, quindi, forte era il
suo interesse all'approvazione della legge.
Aziende e consorzi erano fatti su misura delle decisioni politiche.
Così il Consorzio Brutium viene costituito da Saladino proprio il
giorno prima dell'approvazione di una legge regionale, in forza della
quale vince subito una gara. C'è poi la società Need, che diventa, dice
Merante, «una vera e propria "cassa" per il solo Saladino».
Il sistema è questo: il dottor Saladino faceva ottenere, attraverso
la sua rete di rapporti politico-istituzionali, commesse e lavori vari
a diverse società e in cambio la Need otteneva una somma con consulenze
commerciali. Si tratta di una percentuale "dovuta" per le commesse che
il Saladino faceva ottenere. È proprio per questi motivi che cominciano
a incrinarsi i miei rapporti con Saladino, in quanto io pretendevo che
le consulenze commerciali fossero effettive, che vi fossero prestazioni
specialistiche, che Need poteva essere messa in grado di offrire, e non
mere apparenti fatturazioni solo funzionali all'ottenimento di
denaro.
Need pretende sempre più soldi, anche da Why not: 85 mila euro nel
2004, 200 mila nel 2005, 270 mila nel 2006. In più, racconta Merante,
«ci viene imposto di regalare le quote di Silagum, alla quale abbiamo
dato 500 mila euro in contanti più 250 mila euro di mutuo, con
fideiussioni personali per 900 mila euro cadauna, altrimenti sarebbe
fallita». Saladino, secondo l'imprenditrice, preme anche
psicologicamente sui suoi collaboratori.
Pur di annientare le volontà delle persone che lavoravano attorno a
lui, in particolare alla Need, induceva tutti a far uso di
psicofarmaci; ci ha provato anche con me, ma senza riuscirci; altre
persone ne hanno fatto uso pur di assecondare le volontà del "capo".
Merante racconta che Saladino fa assumere anche il figlio dell'allora
ministro dell'interno Beppe Pisanu, che entra nella società Getronics.
E in un 'intercettazione del 9 marzo 2006, Antonio Salis, segretario
particolare del ministro Pisanu, rassicura Saladino del buon esito
della sua segnalazione di un carabiniere assegnato alla Regione Emilia
Romagna. Le raccomandazioni, specialmente di poliziotti, carabinieri e
finanzieri, sono il suo forte. E trova sponde istituzionali disposte ad
accoglierle. Saladino ha infatti ottimi rapporti con alti ufficiali
delle forze dell'ordine. Tra questi, il generale Paolo Poletti, capo di
Stato maggiore della Guardia di finanza, al lavoro per realizzare
l'archivio informatizzato centrale sui 68 mila uomini del corpo: una
commessa da 8 milioni di euro che interessava molto Antonietta Magno,
imprenditrice informatica vicina a Saladino, che controlla la Iset, una
società gravata di debiti. Racconta Caterina Merante:  
Nel 2005-2006 il dottor Saladino ci propone di rilevare la società
Iset, riconducibile alla dottoressa Antonietta Magno, che Saladino
sosteneva essere in rapporti stretti con il Generale della Guardia di
Finanza Paolo Poletti.
Poletti arriva in Calabria insieme ad Antonietta Magno e incontra
Saladino:
L'allora colonnello Poletti si chiude in camera con Saladino. (...)
La richiesta è questa: noi rileviamo Iset, destinataria di un
importante finanziamento pubblico nel settore dell'informatica, con 23
milioni di euro di debiti, alla dottoressa Magno diamo 150 mila euro.
Ovviamente, era un'offerta assurda e diciamo di no. Lo scenario
proposto da Saladino all'allora colonnello era questo: la Guardia di
Finanza passava a Saladino l'archivio documentale, lui avrebbe dovuto
fargli ottenere un finanziamento regionale.
Effettivamente la Iset era diventata, nel luglio 2005, destinataria
di un finanziamento da 8 milioni di euro, deciso dal Cipe su proposta
del sottosegretario dell'Udc Pino Galati. Ma il 24 marzo 2006 il
giudice decreta il fallimento dell'azienda. Dovrebbe essere la fine del
finanziamento. Ma un decreto del Cipe firmato da Silvio Berlusconi due
giorni prima del crac risolve il problema, deliberando che i soldi
della Iset passino alla società che ne aveva acquistato il ramo
d'azienda: la One Sud. Chi c'è dietro la One Sud? Sempre Antonietta
Magno.
Galati il 26 febbraio 2006 parla al telefono - intercettato - con
Saladino. Pochi giorni prima, il suo ministero aveva proposto al Cipe
di girare i fondi a One Sud:
L'altro giorno ho visto il generale Paolo Poletti, credo per la
stessa cosa che dici tu. Mi ha chiamato lui perché c'è da fare una
modifica a quel contratto. E l'abbiamo fatta. (...) Siamo riusciti a
farla al Cipe a questa cifra.
Saladino gli chiede: «E il generale che ti ha detto?». Galati
risponde: «Mi ha detto che uno bravo come me la Calabria non lo troverà
più».
Caterina Merante racconta a verbale che in questa vicenda era
all'opera un non meglio specificato "gruppo di San Marino". In una e-
mail di Enza Bruna Bossio a Saladino si fa riferimento addirittura a
una "loggia di San Marino". E alcuni indagati effettivamente a San
Marino fanno viaggi e spostano soldi. Esiste dunque davvero una loggia
segreta che unisce i protagonisti di questa storia e offre un ombrello
ai loro affari? Il primo segnale di presenze massoniche è stato, come
abbiamo visto, il grembiulino trovato a Giovanbattista Papello durante
la perquisizione del maggio 2005. Poi i segnali si moltiplicano, tanto
che De Magistris ipotizza che gli indagati abbiano violato la legge
Anselmi, la norma varata dopo lo scandalo P2 che punisce la
costituzione di associazioni segrete. Il magistrato sa che è ben
difficile dimostrare la formale iscrizione a un'obbedienza massonica
deviata, ma ha raccolto svariati elementi di una comune volontà di
condizionare le
istituzioni e di turbare il corretto andamento della pubblica
amministrazione. Una vecchia conoscenza della P2 (e di Mani pulite),
comunque, in questa storia fa capolino: è Luigi Bisignani, già iscritto
alla loggia di Licio Gelli (tessera numero 203) , già condannato a 3
anni e 4 mesi per la maxitangente Enimont e, 15 anni dopo, imprenditore
in stretto contatto con Saladino. È in ottima compagnia. Con Saladino e
soci parla anche un trio di generali della Guardia di Finanza che
comprende, oltre ai già citati Cretella Lombardo e Paolo Poletti, anche
Michele Adinolfi.
Nella rete di contatti incrociati del presunto comitato d'affari c'è
anche un'utenza telefonica che per molto tempo resta un mistero. Al
consulente tecnico di De Magistris, Gioacchino Genchi, la Wind risponde
che è un'«utenza non presente in archivio». Cioè inesistente. Eppure
parla, eccome. Genchi rinnova la richiesta altre nove volte, ottenendo
sempre la stessa risposta: «Utenza non presente in archivio». Fino al
luglio 2007, quando la risposta cambia: «Sì, è un'utenza Wind». Alla
fine Genchi scopre il mistero: il numero è quello di una Sim aziendale
della Vpn (Virtual Private Network) di Wind ed è in uso a Salvatore
Cirafici, il dirigente che si occupa della gestione dei tabulati e
della richiesta d'intercettazioni telefoniche, e che dunque sa chi è
sotto indagine e sotto intercettazione. Proprio il manager Wind del
settore a cui Genchi rivolgeva le sue richieste... Cirafici, ex
ufficiale dei carabinieri, parla spesso con Bisignani, con
il generale Cretella Lombardo, con Lorenzo Cesa... Ed è stato in
stretto contatto con i protagonisti dello scandalo degli spioni
Telecom, da Luciano Tavaroli a Fabio Ghioni, fino al numero due del
Sismi Marco Mancini. Annota Genchi:
Processati i dati di traffico delle utenze del Bisignani e rilevati
gli intensi rapporti col Cirafici, le utenze di quest'ultimo hanno
evidenziato circolari rapporti telefonici con utenze già nella
disponibilità di Fabio Ghioni, Luciano Tavaroli, Marco Mancini, Tiziano
Casali, Filippo Grasso, dei quali è stato accertato in sede cautelare
il coinvolgimento in vicende spionistiche, finora limitate al gruppo
Telecom.
Pronto Prodi, pronto Mastella
Il culmine delle polemiche s'addensa, nel 2007, attorno al
coinvolgimento nell'inchiesta di Prodi e Mastella, che svia
l'attenzione dai ben più corposi elementi emersi a carico di altri
indagati. Saladino, per fare affari, stringe buoni rapporti a destra e
a sinistra. Chiama più volte anche il vicepremier Francesco Rutelli,
del quale ha in agenda i numeri di diversi cellulari, dell'abitazione e
degli uffici di partito. Questo non impedisce che in altre telefonate
esprima invece pesanti considerazioni critiche nei suoi confronti. Ha i
numeri di Prodi, ma lo attacca con un sms ironico che il 9 marzo 2006,
in piena campagna elettorale, rivela i suoi veri gusti politici:
«Berlusconi ha fatto piangere gli americani, Prodi farà piangere gli
italiani». Destinatari del messaggio sono politici di tutti gli
schieramenti e figure di primo piano delle forze dell'ordine: dall'ex
ministro di An Gianni Alemanno al generale delle Fiamme Gialle Michele
Adinolfi,
fino allo stesso Mastella. Eppure Prodi è tra i contatti di
Saladino, che mantiene buone relazioni anche con alcuni uomini del suo
staff.
Il presidente del Consiglio viene iscritto nel registro degli
indagati nel luglio 2007, per abuso d'ufficio. È un atto dovuto: per i
suoi rapporti con Saladino e con altri protagonisti di questa vicenda;
ma soprattutto perché il presidente del Consiglio usa un telefonino che
risulta fornito da una società, la Delta spa. In una relazione del
consulente tecnico di De Magistris, Gioacchino Genchi, si legge:
Saladino ha mantenuto ottimi rapporti e interessi di varia natura con
i più diretti collaboratori dell'attuale presidente del Consiglio dei
ministri, professor Romano Prodi. Le stesse considerazioni valgono per
il deputato Sandro Gozi, proclamato deputato il 28 aprile 2006 e
componente, dal 6 giugno 2006, della Commissione Affari Costituzionali
della Camera, in sostituzione del deputato Romano Prodi, nominato
presidente del Consiglio. (...) Dalle altre acquisizioni di tabulati,
la Sim Gsm intestata alla Delta spa riconducibile al deputato professor
Romano Prodi è risultata in contatti telefonici con le utenze fisse e
cellulari di Franco Bonferroni, Antonio Saladino, Francesco De Grano,
Piero Scarpellini e Sandro Gozi.
Il telefono usato quotidianamente da Prodi ancora nel 2007, come
altri tre utilizzati dal suo staff, è intestato, con una voltura,
all'"Associazione L'Ulivo-I democratici". Ma prima della voltura tutte
le quattro schede Sim Gsm erano della Delta spa, che le aveva offerte a
Prodi e ai suoi collaboratori nel 2004. La Delta è una società che ha
lavorato per la pubblica amministrazione, avendo fornito servizi di
telefonia alla Consip (una spa del ministero delle Finanze):
La Delta spa era intestataria delle quattro Sim Gsm cedute il 21
ottobre 2004 allo staff di Prodi. (...) Gli aspetti più inquietanti
dell'accertamento sulle schede della Delta spa riguardando
l'attivazione, l'intestazione e l'imputazione fiscale e finanziaria
delle Sim Gsm alla Delta. Infatti la Delta - come segnalato dal
consulente - è risultata fornitrice di servizi alla Consip Spa. (...)
La Delta quindi era l'intestataria delle quattro Sim cedute allo staff
di Prodi ed era al contempo la fornitrice di servizi di telefonia
pubblica della gara Consip.
Il coinvolgimento di Prodi nell'indagine avrebbe dovuto restare
segreto, in attesa di approfondimenti per accertare se davvero i suoi
comportamenti configurassero reati. Ma il 13 luglio una fuga di notizie
- una delle tante in questa storia piena di spifferi - porta
l'iscrizione del presidente del Consiglio sulle pagine del sito web del
settimanale Panorama.
La reazione di Prodi è sobria. Nega di aver compiuto illeciti e si
dice fiducioso nell'operato della magistratura. Ben diversa quella di
Mastella. Il ministro sa di essere coinvolto nelle indagini per le sue
telefonate con Saladino e per il suoi «intensi rapporti» con Luigi
Bisignani. Il 16 marzo 2006, per esempio, Saladino dice a Mastella:
«C'è un amico mio, che una volta ti ho presentato, un grande
costruttore, una cosa molto seria. Sai, Clemente, voleva conoscerti,
fare una chiacchierata con te». «Mandamelo verso le 12,15», cioè tra
un'ora, risponde disponibilissimo Mastella. Saladino aggiunge: «Si
tratta di una persona serissima. Amico anche di un generale... che
siamo stati insieme, ti ricordi, con il generale...». Il "grande
costruttore" è Valerio Carducci. Il generale sarebbe Paolo Poletti,
quello su cui De Magistris sta indagando a proposito della
realizzazione dell'archivio informatico della Guardia di finanza.
Mastella chiede che la procura di Catanzaro metta nero su bianco tre
cose: che avrebbe aperto un'inchiesta sulla divulgazione di una delle
sue telefonate con Saladino; che non aveva chiesto alcuna
autorizzazione al Parlamento per il loro utilizzo; che quelle
telefonate erano comunque penalmente irrivelanti. Il 20 giugno arriva
la risposta della Procura, che si limita a precisare in un comunicato
che il ministro non è indagato.
Intanto gli ispettori hanno finito il loro lungo lavoro e presentano
al ministro una relazione di 5 mila pagine piene di contestazioni: il
pm avrebbe commesso errori e scorrettezze procedurali, «gravi
violazioni deontologiche» in «più procedimenti penali», non avrebbe
informato dei suoi atti d'indagine i capi dell'ufficio, avrebbe
dimostrato «scarsa riservatezza» e «disinvolti rapporti con la stampa».
Sulla base di questa relazione e di un successivo rapporto degli
ispettori, Mastella il 21 settembre 2007 chiede al Csm il trasferimento
cautelare di De Magistris e del suo capo, Mariano Lombardi, colpevole
di non aver vigilato sulle sue indagini . La richiesta di trasferire i
magistrati è una facoltà consentita al ministro da uno dei decreti
delegati dell'ordinamento giudiziario varato dall'ex ministro Castelli,
quelli lasciati entrare in vigore dall'Unione nell'estate 2006. In un
comunicato, Mastella sostiene che la sua richiesta è «formulata
nell'esclusivo interesse del buon funzionamento della giustizia,
vista la gravità e la pluralità delle condotte» di Lombardi e De
Magistris e «la loro negativa ripercussione sull'efficienza della
Procura di Catanzaro».

A De Magistris sono addebitate senza alcun dubbio anche le fughe di
notizie sulle sue indagini: eppure non solo è ancora tutto da
dimostrare che siano responsabilità del suo ufficio, ma è certo che
siano state usate contro di lui e per danneggiare le inchieste. Quanto
alle interviste che gli vengono rimproverate, sono per lo più
rilasciate per denunciare l'isolamento in cui opera e le manovre ostili
di molti colleghi. Tra le accuse, c'è anche quella secondo cui il
decreto di perquisizione del procuratore generale di Potenza, Tufano,
sarebbe «abnorme» e «troppo dettagliato», per la presenza di
intercettazioni di dubbia di rilevanza penale. Gli si rimprovera anche
che nel suo ufficio è stato «smarrito l'intero sottofascicolo delle
intercettazioni» dell'inchiesta "Toghe lucane" (ma era solo una copia).
E che a «uno dei suoi più stretti collaboratori» (un maresciallo della
Finanza in trasferta a Roma per le indagini) è stato rubato il
computer portatile «contenente tutti gli atti». Tutto ciò
proverebbe, secondo il ministero, che De Magistris è «macroscopicamente
inadeguato» e lavora con «grave e inescusabile negligenza e
inammissibile superficialità».

Il magistrato si limita, sulle prime, a rivendicare «l'assoluta
correttezza» dei suoi atti e si prepara a difendersi, assistito dall'ex
presidente dell'Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo.
La sezione disciplinare del Csm fissa l'udienza per l'8 ottobre. Poi
però De Magistris si sente costretto a parlare, per smentire una
"polpetta avvelenata" raccolta da alcuni giornali, secondo cui il suo
consulente Gioacchino Genchi terrebbe sotto scacco i palazzi del potere
romano con migliaia di intercettazioni e tabulati telefonici: notizia
destituita di ogni fondamento.
Il Csm ascolta De Magistris il 29 ottobre 2007, ma rimanda la
decisione al dicembre successivo: evidentemente non riscontra elementi
che impongano scelte urgenti. Così De Magistris prosegue l'iter
dell'indagine Why not e il 14 ottobre decide di iscrivere anche
Mastella sul registro degli indagati: per abuso d'ufficio, concorso in
truffa e violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Anche
questa dovrebbe essere una notizia destinata a restare segreta. Ma
cinque giorni dopo, venerdì 19 ottobre, la rende pubblica il quotidiano
Libero.

A questo punto il ministro della Giustizia insorge, protestando che
l'iscrizione è un atto di ritorsione per le sue richieste al Csm. La
vicenda è chiusa dal magistrato che fa le funzioni del procuratore
generale a Catanzaro: Dolcino Flavi (segnalato da Buccico quando era la
Csm). Il reggente della Procura generale avoca a sé l'inchiesta Why
not, strappandola a De Magistris, e inoltra poi la posizione di
Mastella a Roma, al tribunale dei ministri.
Dopo dopo, anche al consulente Gioacchino Genchi viene revocato
l'incarico. Anche Genchi è oggetto di numerosi attacchi politici e
interrogazioni parlamentari. Mastella in persona gli dà del
«mascalzone» nel luglio 2007, quando il sito web radiocarcere.it
pubblica una sua relazione in cui compare il numero del cellulare del
ministro. Poi a ottobre, dopo la puntata di Annozero del 4 ottobre
dedicata alle inchieste di De Magistris, il ministro rincara la dose e
in una conferenza stampa lo chiama «Licio Genchi».

Lino Jannuzzi e altri esponenti del centrodestra lo accusano
apertamente di compiere indagini senza mandato e di raccogliere
illecitamente dati su politici e uomini delle istituzioni, usati per
tenerli sotto ricatto. Genchi replica ricordando che è solo un
consulente tecnico e che ogni suo atto d'indagine deve essere richiesto
e autorizzato da un magistrato. Poi spiega che il documento con il
cellulare di Mastella ha il timbro del Tribunale del riesame e non esce
dal suo studio, bensì dal Palazzo di giustizia di Catanzaro. È finito
in rete - constata - subito dopo essere stato depositato agli avvocati
di Bisignani: «Metterlo per un'ora sul web è stata una trappola, una
manovra contro di me e De Magistris. Per permettere di additare la fuga
di notizie e gridare al complotto».
A De Magistris sono sottratte le indagini (Poseidone e Why not), il
consulente (Genchi), l'investigatore (Zacheo). È sotto inchiesta
davanti al Csm. «Gliela facciamo pagare. Vedrai, passerà gli anni suoi
a difendersi»: la profezia di Chiaravalloti è diventata realtà.   


Da Mani sporche
di Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
Chiarelettere 2007



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  • : Iskra
  • : Da una scintilla scoppierà un incendio
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