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29 aprile 2012 7 29 /04 /aprile /2012 15:40

Contro le politiche razziste e moderno fasciste dei governi al servizio di
questa società capitalista e imperialistia RIBELLARSI E' GIUSTO!

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Madre si dà fuoco: "Vogliamo verità"Una delegazione di donne rappresentanti
delle famiglie di migranti scomparsi è stata ricevuta dal consigliere del primo
ministro Hamadi Jebali. Ma le ricerche sui clandestini che potrebbero essere
sbarcati sul nostro territorio non vanno avanti. Si teme che molti di loro
siano morti in maredi

SABINA AMBROGI (www.repubblica.it)

ROMA - Si chiama Jannet Rhimi, abita a Tunisi, nel quartiere popolare di
Ennour. Alle 4 di giovedì pomeriggio si è data fuoco e ha ustioni gravissime
sul torace e sulla gola. E' stata la cognata a salvarla da morte certa.

La mamma di Oussam, 19 anni, ha voluto così drammaticamente protestare contro
le autorità tunisine e, indirettamente, contro le autorità italiane che dopo un
anno non hanno dato né a lei né alle altre famiglie informazioni di alcun
genere sulla sorte dei migranti dispersi.

Oussam voleva raggiungere il fratello in Europa. E' partito la notte del 29
marzo 2011 per l'Italia assieme ad altri 35 ragazzi su un'imbarcazione di
fortuna da una spiaggia vicino Sfax, a sud della Tunisia. Da allora, né lui né
i suoi compagni di viaggio hanno più dato notizie di sé.

Jannet è ora ricoverata nell'ospedale di Ben Arous, lo stesso in cui tentarono
invano di salvare il venditore ambulante Mohamed Bouazizi avvolto nelle
fiamme che accesero la rivoluzione dei Gelsomini.

In seguito a questo avvenimento, ieri mattina, una delegazione di madri
rappresentanti delle famiglie di migranti (molti dei quali protagonisti della
rivoluzione) è stata ricevuta dal consigliere del primo ministro Hamadi Jebali.
Si dicono deluse da questo incontro (“ancora promesse”), e deluse dalla
vaghezza con cui Houcine Jaziri, sottosegretario agli Affari Sociali, sta
gestendo le informazioni che
in Tunisia sembrerebbero arrivate - solo parzialmente - dal nostro paese,
generando però confusione e maggiore angoscia, fino a reazioni radicali come
quelle di Jannet, che si può anche temere vengano emulate visto il livello di
esasperazione dopo un anno di attese.

Il primo ministro tunisino Hamadi Jebali, durante il suo viaggio in Italia, il
15 marzo scorso, ha incontrato la delegazione dei rappresentanti dei familiari
dei dispersi che si trova a Roma da qualche mese. Jebali ha dato la massima
disponibilità a collaborare con le nostre autorità per dare buon esito alle
ricerche. Anche il presidente del Consiglio, Mario Monti si è impegnato a fare
il possibile. Così come il ministro Riccardi e la ministra Cancellieri che si
sono impegnati in questo senso durante il loro recenti viaggi a Tunisi. C'è
perfino una commissione al Senato per i diritti umani che se ne sta occupando.
Di sicuro ci sono dei tempi burocratici e delle procedure da rispettare, ma di
fatto è da ormai un anno che le famiglie tunisine attendono di sapere qualcosa
circa la sorte dei propri figli.

Solo prossimamente saranno resi noti i risultati complessivi dell'esame che
sta effettuando il Servizio Immigrazione del ministero degli Interni. Si tratta
dei raffronti tra le impronte digitali che in Italia si prendono all'arrivo dei
migranti, o nei Cie, o nelle carceri, e quelle mandate dalla Tunisia, rilevate
al momento del rilascio della carta di identità. Anche se i dispersi sarebbero
molti di più, si parla di 250 impronte digitali disponibili. Solo dopo lunghe
attese, le autorità tunisine hanno mandato in Italia le impronte dei
connazionali sui supporti adatti per essere “lavorate”. E, dato di non poco
conto, nel periodo di cui stiamo parlando, molto spesso in Italia non sono
state prese affatto le impronte digitali dei migranti. Il mese di Marzo 2011,
quello dello “tsunami umano” come lo chiamò Berlusconi, la parola d'ordine
era svuotare Lampedusa. Portati in massa dentro le navi, i migranti, furono
allora trasferiti nelle strutture allestite ad hoc, tra cui quella di Manduria,
da dove in molti sono fuggiti.

Di certo, le impronte confrontate restano la traccia più sicura (anche se non
l'unica) per sapere se le persone cercate sono arrivate vive sul suolo
italiano, giacché la maggior parte dei migranti, se identificati, dà nomi falsi
al momento dello sbarco. Per questo sono chiamati “harraga”, dall'arabo
“bruciare”, per indicare che, bruciando le loro identità, bruciano,
metaforicamente, le barriere tra paesi. Per estensione, ciò significherebbe
allora riaffermare la prerogativa di essere umano, a prescindere dalla
provenienza. Una questione profondissima che viene rilanciata di continuo sul
tappeto della politica, tunisina e italiana, dalle madri dei dispersi: queste
donne di origini umili e di condizioni economiche disperate, vogliono sapere
quale sia stato il destino dei loro figli, in quanto esseri umani. E lo
vogliono sapere anche se vengono considerati “clandestini” perché avrebbero
agito illegalmente secondo le leggi di entrambi i paesi. Vogliono saperlo
anche se alcuni di loro erano dei pregiudicati evasi dalle carceri e vogliono
sapere cosa hanno fatto i due stati con le loro politiche migratorie.

Va sottolineato che trovare un solo passeggero, di una sola imbarcazione
significa essere informati sul destino di tutti i compagni di viaggio.
Pertanto le stime, per quanto riguarda la parte italiana, si sarebbero potute
fare più in fretta: basta trovare un solo membro di una sola imbarcazione per
sapere della vita o della morte degli altri. Si tratta in particolare delle
imbarcazioni partite l'1, il 14 e 29 marzo 2011 (quella che portava anche il
figlio di Jannet Rhimi).

La delegazione di famiglie tunisine in Italia ha portato con sé una serie di
“prove” che hanno tenuto in vita e continuano a tenere in vita le speranze. Si
tratta di telefonate dal mare nella notte; cellulari che hanno suonato a
vuoto per lungo tempo; immagini catturate dai video dei tg; foto sgranate con
volti familiari, chiamate ricevute una sola volta dopo gli sbarchi presunti, e
non andate mai a buon fine, notizie di sbarchi che si accavallano con quelle
dei naufragi. Sono i frammenti di un' illusione collettiva o indizi da
seguire? Di certo mostrano tutta la loro fragilità perché non trovano né
conforto né smentita da parte di chi avrebbe i mezzi e i poteri per
verificare.

E di nuovo allora tutto torna alle madri e alle loro richieste, con i sit-in
non autorizzati davanti alle sede diplomatiche di entrambi i paesi, sostenute
da alcune donne italiane: il collettivo femminista “2511” e l’associazione
Pontes, che hanno dato vita alla campagna “Da una sponda all’altra: vite che
contano”.

E chiedono alle autorità italiane e tunisine: "Perché non fate tutto quello
che è in vostro potere fare? Quali risorse state stanziando realmente per
verificare gli indizi che vi portiamo?" E' una posizione radicale che le madri
dei migranti tunisini pongono di continuo anche di fronte alla sola vera
prova che oggi fa pensare il peggio, e che è poi quella più ovvia e evidente:
da un anno a questa parte nessuno dei dispersi ha mai veramente parlato con i
familiari.
(21 aprile 2012)
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