L’ incidenza quantitativa delle violenze e dei maltrattamenti sulle donne è stata rilevata anche nell’ ambito di altre due inchieste limitate ad aree urbane.
La ricerca Urban
(http://db.formez.it/fontinor.nsf/faf9e352d389be8fc1256bb900405812/D4F1CD32D1C7DC83C1256E9700519795/$file/Urban%20Italia.doc; http://www.retepariopportunita.it/Rete_Pari_Opportunita/UserFiles/Isfol/Rete_antiviolenza_RETE.pdf; http://www.retepariopportunita.it/Rete_Pari_Opportunita/UserFiles/Presidenza_Ue_Italia_seminari/Catania/Documenti/scheda-progetto-urban-catania.rtf)
che si è svolta su campioni casuali di donne tra i 18 – 59 anni in quartieri degradati di 8 città italiane, ha rilevato un’ incidenza del 12, 3 % di “violenze e maltrattamenti” (la formulazione piuttosto generica che è stata scelta) nell’ arco della vita, mentre una ricerca coordinata da Patrizia Romito, psicologa esperta di violenza contro le donne, sull’ utenza dei servizi sociali e sanitari di Trieste ha rilevato tra chi si è rivolta a questi servizi un’ incidenza del 17, 8% per violenze fisiche e/o sessuali e del 28, 6% per qualunque tipo di violenza nell’ arco della vita, del 15, 7% per varie forme di violenza sa parte del partner o dell’ ex subita negli ultimi 12 mesi, e del 6, 3 % nell’ ultimo anno (Romito e Crisma 2000, 101 – per una rassegna degli studi italiani con un confronto tra le metodologie vedi Adami, 2003 e Capecchi 2003).
La ricerca Urban ha utilizzato anche un questionario sulla percezione della violenza in cui, benché i rispondenti risiedano solo nei quartieri difficili delle città che partecipano al progetto, è evidente il cambiamento di costumi che ha portato a un maggior rispetto delle donne: è solo una minoranza dell’ 8% dei rispondenti a ritenere che “le donne serie non vengono violentate”. Un’ altra minoranza del 9% pensa che vi siano circostanze in cui è giustificata la violenza sessuale: lo pensano nella metà dei casi “quando la donna provoca l’ uomo” e inoltre “quando chi la commette è sotto influsso di alcool o droga”, mentre solo l’ 1% ritiene giustificata la violenza”quando la donna accetta di essere baciata, toccata”. Solo per il 6% del campione non si può mai parlare di violenza sessuale tra marito e moglie, mentre l’ 87% ritiene che anche in questo caso possa verificarsi violenza sessuale. Le risposte degli intervistati alla frequenza con cui stimano che accadano maltrattamenti in famiglia è stata “molto” per il 33%, “abbastanza” per il 50%, “poco” per il 16% e “per niente” per l’ 1%. La frequenza con cui le intervistate negli ultimi due anni hanno subito molestie è stata del 19%; violenze psicologiche sono state denunciate dal 34% del campione (l’ autore è stato il coniuge in quattro casi su dieci), maltrattamenti fisici addirittura dal 15% (quasi la metà da parte del coniuge), violenze sessuali dal 2% dei casi (il coniuge ne è stato autore in più di un terzo dei casi). Dai questionari Urban risulta che ben il 18% delle laureate hanno subito violenza, ma l’ interpretazione che le autrici danno di questo dato è che le donne più istruite riconoscono più facilmente la violenza e soprattutto ne parlano più facilmente.
Particolarmente alti sono i dati che riguardano violenze e maltrattamenti sul luogo di lavoro a Catania: il 13% del campione dichiara di aver subito violenze sessuali e il 20% molestie. Più il mercato del lavoro è precario, più chi ha trovato un impiego tra mille difficoltà si trova anche a dover fronteggiare la violenza maschile. Catania è un caso estremo anche per le risposte sulle cause della violenza sessuale: rispondono che è colpa delle donne il 31, 6% dei maschi e il 24, 9% delle femmine.
La risposta più frequente delle donne è che di tratti di fattori genetici: il 28, 7% (gli uomini scelgono questa modalità nel 27, 7% dei casi). È la maniera contemporanea di affermare l’impossibilità a modificare la violenza maschile, da sommare a chi aderisce alla risposta “ L’ uomo è fatto così”, indicata dal 15, 6% dei maschi e dal 22, 8% delle femmine. I fattori sociali sono indicati come causa della violenza maschile dal 28, 5% dei maschi (è la loro risposta più frequente) e solo dal 18, 2% delle femmine. “La concezione maschile della donna” è indicata come la causa degli stupri per l’8, 2 % dei maschi e l’ 11% delle femmine. La coordinatrice di un servizio sociale di Catania ha dichiarato: “Come cultura abbiamo ancora il marito-padrone, il padre-padrone che decide, e questo caratterizza la dinamica familiare” (Palidda 2002, 151). La situazione è aggravata sia dagli altissimi tassi di disoccupazione, sia dalla concezione tradizionale del maschio come capofamiglia che mantiene la moglie. Un’operatrice nota l’ importanza ancora attuale in tutti gli strati sociali di quello che storicamente è stato un ideale della borghesia: “ È il maschio che deve lavorare…. In una coppia ci sono dei patti taciti, per cui io so che sposandomi tu non mi permetterai di lavorare” (Palidda 2002, 157). Uno spinoso problema individuato dalla ricerca è che i servizi non aiutano le donne vittime di violenza perché gli operatori non vengono istruiti per metterli in grado di riconoscerla anche quando la donna ha paura di parlarne, come nel caso di coloro che si rivolgono al pronto soccorso per “incidenti domestici” che celano in realtà dei maltrattamenti da parte del partner (Adami 2001).
Anche in una città come Bologna, apparentemente progressista, è stato rilevato il medesimo problema: “A metà degli anni Novanta, in una ricerca svolta a Bologna, la psichiatra Lucia Gonzo ha intervistato il personale di alcuni servizi sanitari: tra i medici, il 40% riteneva che nessuna donna potesse essere stuprata se non lo voleva; e il 15% non credeva allo stupro compiuto da uomini conosciuti (citato da Romito2000, 41, vedi anche Romito 1999). Dopo questi risultati è stato realizzato un corso di formazione (Gonzo 2000). Non si può trascurare di notare come per far emergere questo fenomeno, sia a livello conoscitivo che a livello pratico di intervento e soccorso, dal chiuso delle case ci sia bisogno ancora una volta di un impegno pubblico, della destinazione di fondi di ricerca alle rilevazioni e soprattutto alla formazione degli operatori che possono venire a contatto con la violenza in famiglia negli ambiti della sanità, dei servizi sociali, del sistema giudiziario …….. Al di là della violenza fisica, c’è una forma di gestione economica della famiglia più difficilmente riconoscibile come violenza, ma che è altrettanto umiliante e debilitante dei maltrattamenti fisici: molti uomini accentrano su di sé il controllo del denaro della coppia, sia impedendo alla moglie di lavorare e quindi costringendola a chiedere sempre a lui il denaro per soddisfare i propri bisogni, sia sequestrando lo stipendio. Nel secondo caso,è forse più evidente il maltrattamento psicologico, mente il primo ancora una volta riecheggia comportamenti che erano in passato normali e indiscutibili. Ben un terzo delle chiamate al Telefono Rosa riguardano episodi di violenza economica (Dal Pozzo 2000).
La sindrome individuale del desiderio di potere assoluto e di controllo si riflette a livello sociale: la sindrome del maltrattatore che si sforza di controllare ogni mossa e ogni pensiero della partner si ritrova negli attacchi all’ autoderminazione femminile in materia di procreazione. Il principio della “difesa della Famiglia” che le destre vogliono affermare stabilendo quale debba essere l’ unico modello di famiglia approvato dai legislatori ha trovato una prima iscrizione nella legge 40/2004 che limita l’ accesso alle tecniche di inseminazione assistita: non la singola donna, in coppia o meno, come ad esempio prevede la legge spagnola che rispetta l’ autoderminazione delle donne in materia procreativa, ma solo coppie eterosessuali sposate o conviventi possono chiedere aiuto ai medici. Un secondo passo, già contenuto nella medesima legge che parla di “diritti del concepito”, è la messa in discussione della decisione femminile di non proseguire una gravidanza indesiderata. La donna incinta non è un contenitore. Se non vuole essere madre deve esserle permesso di interrompere la gravidanza in un ambiente igienico, a costi sopportabili e soprattutto soffrendo il meno possibile: costringerla a portare a termine la gravidanza significare abusare del suo corpo, per poi condannare all’ infelicità lei e il nuovo nato, non voluto. Le proposte di introdurre accanto alla scelta della donna il parere dell’ uomo che l’ ha ingravidata sono pretestuose: che fare se i due non sono d’ accordo? L’ uomo imporrà alla donna di portare a termine la gravidanza, o viceversa di abortire? È evidente che l’ ultima parola deve rimanere quella della donna per non tornare alla concezione, già aristotelica, della donna come mero contenitore del bambino. Gli uomini che fanno queste proposte in realtà mirano a decidere al posto della donna. L’ angoscia che gli uomini, il sesso che non è in grado di mettere al mondo figli, provano di fronte all’ aborto deriva probabilmente dal contemplare la possibilità di non essere nati se la donna loro madre così non avesse voluto. È una manifestazione di dipendenza del maschile dal femminile intollerabile per una mentalità patriarcale. Tale angoscia è ancora la ragione per cui gli uomini non accettano di stabilire regole che rispettino la decisione femminile di dare vita o di rifiutarla. In termini psicologici, questa insicurezza esistenziale potrebbe essere addirittura la radice della misoginia spinta al ginocidio: l’ obbiettivo sarebbe ottenere l’ obbedienza delle donne innanzi tutto allo scopo di piegare alla volontà maschile la capacità femminile di dare una discendenza agli uomini. La decisione femminile è un tormento per gli uomini, che lo rovesciano sulle donne che vogliono abortire. Laura Conti scrisse icasticamente: “Con il mio tormento tu ti fai scudo dell’ angoscia di poter non essere nato” (Conti 1981). Il passaggio a una civiltà in cui le donne rappresentano la metà del cielo è difficile: gli uomini che in Italia e in molte altre parti del mondo hanno perso (per lo più istituzionalmente) il potere di decidere se una donna debba abortire o avere un figlio, se ne risentono e cercano di riprenderselo. Nei propositi di questi uomini il potere procreativo delle donne deve essere tenuto in scacco proibendo loro di decidere sul destino della nuova vita attraverso la finzione che questa sia già autonoma: vogliono chiamarla “persona” fin dal ventre della madre. Ma fino al parto questa presunta persona non può sopravvivere se manca la volontà della madre di proseguire la gravidanza: la proibizione dell’ aborto non impedisce infatti di farvi ricorso illegalmente. Il concepito è una forma di vita, ma non può vivere senza che la donna lo accetti. A meno che, naturalmente, per scavalcare la volontà della madre non si usino violenza e costrizione anche psicologica, come quella del Movimento per la vita che pretende di essere presente nei consultori pubblici per persuadere le donne a non abortire. Se le grandi religioni monoteiste veicolano un messaggio forte di eguaglianza tra gli uomini, e quindi di tolleranza per gli altri dal momento che sono eguali a noi nella comune essenza umana, d’ altra parte, forse proprio perché sono basate su un unico principio divino identificato con il maschile, non hanno avuto un ruolo altrettanto positivo nell’ ambito dei rapporti tra sessi. In un’inchiesta pregevole svolta in Francia e nelle sue attuali colonie si trovano dati sull’ importanza della variabile “religione” nella famiglie dove il marito malmena la moglie. Si tratta dell’ Inchiesta nazionale sulle violenze contro le donne in Francia (ENVEFF; Jaspard 2001 e 2005). Da questa inchiesta risulta che la religione è un fattore molto importante nella violenza coniugale: il potere divino maschile con il correlato dell’ inferiorità femminile propagandati dalle religioni monoteiste si rispecchiano nel fatto che il 17% delle musulmane e delle ebree è in una situazione di violenza coniugale, contro il 9, 1 % delle cattoliche, che in Francia sono la grande maggioranza e quindi rappresentano la media.
Subisce violenza dal marito solo il 7, 8% delle donne che non appartengono ad alcuna religione. Il livello più grave di violenza è inoltre tanto più diffuso quanto più le donne danno importanza alla propria religione, probabilmente anche perché la credenza nei precetti di queste religioni a proposito dei rapporti tra i sessi rende queste donne più rassegnate alla violenza del marito….
Da GINOCIDIO, La violenza contro le donne nell’ era globale, di Daniela Danna, Eléuthera, 2007, pag. 84, 85, 86, 87, 88.